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L’horror letterario di Enrico Macioci

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Lettera d’amore allo yeti di Enrico Macioci (Mondadori 2017) è un romanzo anomalo nel panorama italiano: un horror letterario. E quel che è più affascinante: un horror con protagonisti un padre e un figlio.

In moltissimi capolavori di ogni tempo: dall’Odissea all’Eneide, da Padri e figli di Turgenev a La strada di McCarthy (per citarne solo un numero ridicolo a titolo dimostrativo) questa relazione ancestrale ha segnato pagine meravigliose. Nella prima parte il padre Riccardo, professore d’italiano, e il figlio Nicola di quasi sei anni villeggiano in una località balneare.

All’inizio il legame tra i due è descritto secondo modalità realistiche. Il padre racconta che la storia della loro famiglia è stata flagellata da una tragedia capace di stravolgerne le esistenze: da qualche mese è morta la madre, a soli trentacinque anni e sanissima, di infarto miocardico acuto. Questa morte è un abisso nel quale sprofonda ogni certezza e dal quale riemergono malinconie paure fragilità.

Ma dopo un po’ si intuisce che il realismo è infestato dai demoni; sin dall’inizio vengono descritti sogni che non solo turbano il sonno del padre, svegliandolo di soprassalto e urlante, ma sembrano anche contagiarne la veglia: sfociando in un’ansia distruttiva isterica allucinatoria. A Colombaia, la località balneare dove i protagonisti si trovano a passare l’estate in una casa acquistata poco prima che la moglie morisse, il padre e il figlio lentamente fanno nuove amicizie, costruiscono nuovi legami e affrontano diverse avventure.

Il figlio si emancipa sempre di più e il padre cerca di liberarsi dal lutto cedendo al richiamo del corpo. Eppure, come si scoprirà più avanti, il padre (nel volersi legare infine più che a un amore a un dolore) sembra girare sempre attorno a se stesso, come se il suo modo di affrontare la vita, la sua stessa esistenza, fosse autistico: dando l’impressione di non riuscire a sottrarsi a una fatale voluttà di soffrire.

Inoltre, in questo testo ha una rilevanza assoluta un modo di essere che non saprei se definire morale etico o esistenziale, che non solo ritrovo in pochissime opere ma mi pare, oggi, a torto, quasi del tutto connotato negativamente in ogni forma di discussione: l’ambiguità.

Quello di Macioci è un romanzo del tutto incentrato sulla doppiezza – anche qui rievocando libri celeberrimi come Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde, e soprattutto, sempre di quel genio di Stevenson, L’isola del tesoro, da cui viene integralmente ripreso un personaggio reinterpretandolo in chiave horror: contraddistinto da luci e ombre ma soprattutto orribilmente volubile (tra l’altro in un modo che diventa impossibile non associarlo all’It di King).

Ma il culmine dell’ambivalenza, come intuisce l’autore in modo geniale, è il mistero. Il mistero atterrisce e consola, acceca cingendo nell’ansia e stimola l’immaginazione. E i bambini sono i più grandi interpreti e manipolatori di tutto ciò che riguarda l’ambiguità.

Nicola mostra di avere una maturità precoce, ma anche una grande paura che lo tiene legato all’infanzia con una malinconia struggente. Dopo il lutto materno, affonda con tutto se stesso nella fantasia dello yeti. Lo yeti è un personaggio – starei per dire un supereroe – che danza nella mente del bimbo come fosse l’unico essere che può esaudire il suo desiderio più grande, destando però simultaneamente – ancora una volta in modo ambivalente – terrore e speranza. Una splendida sintesi emblematica la compone proprio il bimbo nella sua lettera d’amore allo yeti, quando scrive: “Ti volio bene mi fai paura”.

È il mistero insomma in questo libro a elettrizzare le trame. Compito del padre è quello di andare oltre la realtà, senza evitarla. Il padre cerca disperatamente di capire come dosare verità e menzogna.

Sto cercando di non rivelare troppo ma, a questo proposito, ci sono nel testo riflessioni suggestive sulla contrapposizione tra il male che riesce solo a mentire e il mistero che, certo, non può che trasfigurare, senza però mai scadere nella contraffazione.

Ma il nucleo del romanzo mi pare si concentri nella lotta maestosa che avviene tra la disperazione del padre – dopo la morte improvvisa e senza motivo della giovane moglie – la sua vergogna, i suoi sensi di colpa, la volontà di cedere al lutto, di lasciar perdere e convincersi che niente possa fronteggiare il caso di un’esistenza priva di senso e la tenacia di chi resiste nonostante il male menta dilaghi ghigni, di chi si ostina a vivere accettando, come una benedizione, il mistero.

È notevole la scrittura di Enrico Macioci. Sfoggia una lingua ricca e affabulatoria in grado di scolpire personaggi a tutto tondo, di filosofare e di creare tensione; però, per gusto personale, avrei evitato quello che a me pare un eccesso di metafore e di costruzioni aforistiche. L’autore tende, per me troppo spesso, a trarre insegnamenti con un’ostinazione induttiva che scatta a ogni paragrafo, ma che, alla fine, per fortuna è negata dalla complessità del testo: dove sembra invece trionfare una luminosissima ambiguità.

Alessandro Garigliano è nato nel 1975 a Misterbianco. Collabora con i blog minima&moralia e Nazione Indiana. Il suo primo romanzo, Mia moglie e io (LiberAria edizioni, 2013), è stato segnalato al Premio Calvino; il suo secondo romanzo, Mia figlia, don Chisciotte, è uscito a febbraio 2017 per NN editore.

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